Editoriale: Il filosofo di Lisbona Giovanbattista Tusa ha intervistato Roberto Esposito sul verdetto apparentemente contraddittorio riguardo alla realizzazione e al declino dell’Occidente. Il XX secolo ha mostrato il suo declino o piuttosto il suo trionfo globale? Come potrebbe apparire la futura istituzionalizzazione dell'Occidente e quale potrebbe essere il futuro della filosofia alla luce del processo storico di occidentalizzazione?
Giovanbattista Tusa: Esiste, al cuore della filosofia del secolo XX, un dissidio non facilmente aggirabile, e che porta il nome di “Occidente”. Se, infatti, da un lato infatti il secolo XX è stregato dalla formula Heideggeriana per cui l’Occidente realizza se stesso in quanto fine della metafisica – “realizza” nel senso di esaurimento ma anche in quello di compimento – dall’altra, l’Occidente sembra incarnare, agli occhi di molti influenti pensatori, il proprio senso etimologico di tramonto, di declino, perché non è in realtà riuscito a compiersi: non ha realizzato i propri valori fondanti, e ha così tradito il proprio destino.
In entrambi gli scenari – ossia quella della fine come compimento e realizzazione, o quello della crisi irrimediabile che tormenta un Occidente non all’altezza di se stesso – la diagnosi del tempo presente è la stessa; l’Occidente ha reso irreale la propria fondazione e così corrotto la sua essenza. Forse il problema rimane così inquietante proprio perché ‘Occidente’, più che un principio da realizzare o un’idea guida da tradire, ha come propria ragione un movimento irrealizzabile che svuota di senso ogni idea di nascita, di Oriente, così come al contempo rende irrealizzabile anche la propria idea fondante – perché iscritta nel suo stesso nome – di destinazione finale.
Eppure, l’Occidente, invece di finire, sembra estendersi dappertutto, nel senso che esprimevi tu di un’“occidentalizzazione dell’intera terra”, secondo la quale ‘Occidente’ non è null’altro dal confine in movimento che lo differerenzia da ciò che Occidente “non è ancora o non è del tutto”[1]. Occidentalizzazione che, se comprendo bene, non qualifica più alcuna esportazione valoriale, nessun movimento da Ovest a Est, o da Nord a Sud, del fronte del ‘progresso’. Piuttosto, nel momento in cui l’occidente coincide con tutto l’intero pianeta, esso si condanna ad essere niente – ossia nulla di determinabile in termini di tempo o spazio, o persino in termini di ‘mondo’?
Roberto Esposito: Più di trent’anni fa avevo proposto sull’‘Occidente’ un’analisi simile, che credo possa avere ancora qualcosa da dirci. Essa identificava un’antinomia dell’Occidente per certi versi ancora presente – quella di essere allo stesso tempo una parte della Terra e di volersi porre come tutto. Anche se oggi è viva una forma di autocritica dell’Occidente, il rimorso per la storia violenta che l’ha caratterizzato. Alcuni, soprattutto in quella che si chiama ‘cancel culture’, immaginano che, visto che non è possibile tornare indietro, quella storia violenta vada culturalmente cancellata. In questo modo di pensare c’è però un’ulteriore contraddizione: se questa cancellazione avvenisse, vorrebbe dire cancellare, insieme all’identità occidentale, anche la differenza, politica e culturale, che l’Occidente ha significato rispetto al resto del mondo. In questo modo si arriverebbe a una sorta di globalizzazione ‘vuota’, opposta e complementare alla globalizzazione ‘piena’ prima immaginata dall’Occidente come propria irresistibile espansione. In questo caso, l’Occidente, che si voleva sia parte che tutto, finirebbe per non essere né l’una cosa né l’altra. Per non essere nulla, portando a termine quel motivo del tramonto al quale tu stesso accennavi. La contraddizione che ha caratterizzato la storia dell’Occidente finirebbe per venir meno, ma attraverso la soppressione del suo stesso soggetto.
Rispetto a questo doppio scenario di compimento e di scomparsa, l’ultimo trentennio ha prodotto una serie di passaggi che l’hanno profondamente trasformato. Nel loro insieme essi possono riferirsi alle difficoltà che ha sperimentato la globalizzazione a partire all’inizio del nuovo secolo e del nuovo millennio. Se, alla fine degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta, dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’impero sovietico, si è diffusa l’idea che appunto l’Occidente potesse estendersi fino a coprire tutto il mondo, sulla spinta economica del capitalismo e politica della democrazia, ben presto ci si è dovuti ricredere. La storia non era affatto finita come, sulla scorta di Kojève, aveva imprudentemente pronosticato Fukuyama, e anzi riprendeva fiato l’idea dello scontro di civiltà di cui aveva invece parlato Samuel Huntington. La mia impressione è che anche questa seconda diagnosi fosse sbagliata: conflitto di valori, e anche di interessi geo-politici, non vuol dire necessariamente ‘scontro di civiltà’. Tuttavia, resta il fatto che dopo l’attentato del 2001 a Manhattan, con tutto quello che ne è seguito, è difficile immaginare una globalizzazione ‘liscia’, senza contrasti. Con le guerre in Afghanistan, Iraq, Siria e tutte le altre – fino a quella odierna in Ucraina – il progetto di esportazione della democrazia, sia con strumenti di pace sia attraverso la guerra, si è rivelato del tutto errato.
Non solo, anzi, l’occidentalizzazione del mondo è apparso un progetto fallito – anche se dovunque si è diffuso un tipo vita che ha una radice occidentale, soprattutto attraverso la rivoluzione elettronica –, ma l’Occidente stesso ha cominciato a percepirsi diviso al proprio interno. Con la Brexit sono nati due ‘Occidenti’, uno atlantico ed uno continentale, non sempre uniti nelle strategie e nella visione della politica estera. E in Europa non tutti gli Stati sembrano andare nella medesima direzione. In realtà ciò che è avvenuto in questi anni – la difficoltà della globalizzazione e l’avvento di un mondo costruito anziché sulla bipolarità est/ovest su una multipolarità di blocchi egemoni – era stato colto da alcuni intellettuali già dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Assai istruttivo, in questo senso è il confronto a distanza tra Ernst Jünger e Carl Schmitt[2]. Da un lato Jünger, che pure inizialmente contrappone Occidente e Oriente in relazione al valore della libertà, immagina che l’esito della ‘mobilitazione totale’, determinata dall’avvento della tecnica, possa esse uno Stato mondiale, in cui finiscono per venire meno le differenze di civiltà. Per lui solo questo Stato mondiale potrebbe essere il degno erede del grande disegno cosmopolitico concepito da Alessandro Magno, attraverso la dissoluzione degli Stati nazionali e l’unificazione del mondo in un unico organismo globale. Al contrario Schmitt ritiene che il mondo non possa assumere la forma di un universo, di un unico organismo mondiale, ma che debba invece assumere la forma di un multiverso o pluriverso – l’unico a consentire una effettiva dinamica politica.
Naturalmente a Schmitt non sfugge che il vecchio sistema degli Stati sovrani, per alcuni secoli organizzato dal jus publicum europaeum, è esaurito e non può certo risorgere. Ma a tale ordine non può sostituirsi il Weltstaat, lo Stato mondiale a cui guarda Jünger. Non solo perché impossibile, ma anche perché non porterebbe nulla di buono. Esso segnerebbe precisamente il compimento di quella deriva nichilistica che ha destabilizzato l’ordine moderno, senza sapergli sostituire un altro ordine. Non solo, ma segnerebbe la scomparsa definitiva del ‘politico’, inteso come rapporto di inimicizia fissata da precisi confini spaziali. La globalizzazione, per Schmitt, che ha dissolto i confini tra gli Stati, già minati al loro interno dal venir meno del limite tra nemico, partigiano e criminale, non può da sé produrre un sistema politico. L’unico ordine che oggi si può immaginare è l’equilibrio tra grandi spazi, raccolti intorno all’egemonia degli Stati più forte – secondo lo Schmitt degli anni Cinquanta la Germania in Europa, gli Stati Uniti in America, la Russia in Asia, e il Giappone in estremo Oriente (essendo, in quella fase, la Cina ancora fuori gioco).
Ciò non significa che le linee di discrimine, in cui si articola il mondo, vengano meno. Ma esso non può più essere rappresentato dalla bipolarità classica Oriente/Occidente, che si moltiplica nei ‘grandi spazi’ in cui si divide il mondo contemporaneo. Naturalmente sappiamo quanto il discorso di Schmitt fosse orientato da una logica germano-centrica che ci è del tutto lontana. Tuttavia alcune delle sue tesi restano valide e confermate da quanto sta accadendo. Ormai le potenze mondiali sono costituite da Stati di dimensioni continentali – Stati Uniti, Cina, Russia, India, Brasile –, ciascuno con i propri interessi ed i propri valori. Resta da capire se l’Europa potrà mai diventare uno di essi o se resterà l’agglomerato di tanti piccoli Stati, incapaci, in quanto tali, di giocare un ruolo significativo nel nuovo ordine mondiale.
GT: Come rileva l’antropologo Philippe Descola, pur se la parola che in greco designa la “natura” – physis – appare già nei versi omerici dell’Odissea per riferirsi alle proprietà di una pianta, spetterà ad Aristotele sistematizzare una progressiva oggettivizzazione del dominio naturale, e mettere i suoi principi di funzionamento in rapporto all’organizzazione politica e alle leggi che la regolano. È da allora che “physis e nomos diventano indissociabili; la molteplicità delle cose si articola in un insieme sottomesso a leggi conoscibili, così come la collettività dei cittadini si ordina secondo regole di azione pubblica liberate dagli intenti particolari”[3]. La differenza tra questi due domini sarebbe fondamentalmente di natura dinamica, nel senso che la natura e le sue leggi verranno condannate all’intemporalità di ciò che non muta, mentre il mondo degli uomini è capace di mutare in maniera continua e progressiva.
Nel tuo ultimo scritto tu hai ripreso una locuzione latina di incerta provenienza: Vitam Instituere. Espressione enigmatica, che sfida la nostra capacità logica, per coinvolgere, come scrivi, “la possibilità di pensare insieme vita e diritto senza abbandonare uno dei due termini al dominio dell’altro”[4]. Instituere qui mi sembra denominare una prassi attiva che non può interrompere la relazione con un fondo ‘naturale’ dell’esistenza umana, perché altrimenti ogni istituzione corre il rischio di ridursi a una procedura autosufficiente, a un dispositivo che più che biopolitico potremmo definire tanatopolitico – nel senso che invece di conservare la vita, tenendo insieme la sua dimensione al contempo naturale e storica, finirebbe per renderla impossibile. Nel quadro che ricostruisci, ciò che mi sembra ricoprire un ruolo inaspettato, è l’immaginario. Ossia la potenza di creare mondi nuovi, che manda in frantumi il mondo unico che si protegge contro tutto e tutti – e le sue istituzioni, anch’esse in preda a un’ossessione immunitaria e identitaria.
Viviamo in un mondo in cui il concetto di “energia rinnovabile” sembra essere l’unica possibilità per immaginare un futuro: la capacità di rinnovare all’infinito ciò che era destinato alla distruzione. Una rinnovabilità che però non fa altro che riprodurre quantitativamente risorse che permettano di continuare la stessa vita, riciclandola sempre di nuovo. “La vera vita è assente. Ma noi siamo al mondo”, scriveva in Totalità e infinito[5] Lévinas riprendendo la memorabile formula di Rimbaud. Un futuro economicamente calcolato, “sostenibile” sembra non fare altro che ripetere con altri mezzi l’ossessione del nostro presente per la produzione e la riproduzione. Eppure la vita, più che da produrre o riprodurre, non è oggi piuttosto da reinventare?
RE: Partiamo da una prima definizione. Come va inteso il termine ‘istituire’, cui rimanda la problematica espressione ‘vitam instituere’? Cosa è, o cosa può essere, un’istituzione. Per rispondere, partiamo dall’etimologia, anche senza lasciarcene imprigionare. ‘Istituzione’ è un termine di derivazione latina, da in-statuere, che contiene le due polarità, apparentemente contraddittorie, del movimento e della stabilità. Per ‘istituzione’ s’intende da una parte un processo – il processo istituente – che dà vita a qualcosa che prima non c’era. Un’attività creativa, fondativa, generativa. Dall’altra l’esito di tale processo, un apparato relativamente stabile, una realtà organizzata, che serve a incanalare, garantire e facilitare la nostra esperienza individuale e collettiva. In questo secondo senso sono istituzioni gli imperi, gli Stati, i partiti, i parlamenti, i sindacati. Ma anche la Chiesa, la scuola, l’università, le carceri, gli ospedali, le caserme. In senso ancora più ampio, se s’intende per istituzione il sistema di regole che determina la nostra attività, o una certa pratica di vita, sono tali anche il gioco, il matrimonio, lo scambio, il dono – tutto ciò che lega gli uomini in una prassi comune e ripetuta. Insomma le istituzioni sono strutture preposte all’adempimento di funzioni pubbliche e private rispondenti a determinati interessi, il primo dei quali è la conservazione della vita, ma anche la sua innovazione.
Naturalmente conservazione e innovazione non sono la stessa cosa. Sono esigenze presenti in proporzioni diverse in ogni istituzione. In questo senso esistono istituzioni conservative di qualcosa – anche di poteri preesistenti. E istituzioni innovative, che a loro volta producono trasformazione. Ma per cogliere l’intero significato del concetto, piuttosto che contrapporre i due versanti della conservazione e dell’innovazione, bisogna pensarli insieme, con tutta l’aporia che ne risulta. Istituire vuol dire creare qualcosa che prima non c’era, immettere una novità radicale nel quadro precedente. Ma, poi, perché l’istituzione prenda forma e si consolidi, occorre che questa novità sia resa durevole, permanente nel tempo. Così l’esito dell’istituire, del dare inizio, del generare, più che un divenire, è uno stato, un’entità destinata a ‘stare’, resistendo alla propria dissoluzione. Da qui il suo carattere apparentemente contraddittorio. Istituire è un movimento che tende a negarsi, a creare stasi. Inaugura, innalza, eleva qualcosa che deve restare fermo sulla propria base. Il risultato del movimento istituente è la stabilità dell’istituito. Da qui una sorta di scarto interno, di tensione, che rende l’istituzione esteriore al movimento istituente che la genera. Al centro di ogni istituzione vi è questa faglia interna, come un punto di resistenza negativo intorno al quale l’istituzione ruota.
Detto questo, nella filosofia politica moderna, l’idea di istituzione è stata elaborata in forma assai diversa. E tale diversità rimanda proprio a quanto tu osservi a proposito della natura. Lungo un dibattito che si può fare risalire anche molto indietro, fino al diritto romano, da un lato l’istituzione è stata pensata in contrasto con la natura. Dall’altro, invece, è stata articolata con essa. A capo del primo filone vi è la filosofia di Hobbes e un particolare la sua idea che la nascita dell’istituzione politica – che per Hobbes era soprattutto lo Stato Leviatano – presupponga la fuoriuscita dallo stato di natura, al quale Hobbes riconduce la condizione conflittuale che rende pericolosa la vita umana. A questa linea rimandano, direttamente o indirettamente, gli autori che si sono rifatti al ‘problema’ hobbesiano dell’ordine, da Weber, a Parsons, a Luhmann, allo stesso Freud. Per tutti loro, con accenti diversi, l’istituzione è qualcosa di artificiale che prevede l’abbandono o comunque il ridimensionamento degli istinti naturale. A tale linea si contrappone, o a volte s’intreccia, un’altra prospettiva, che invece radica il processo istituente all’interno del dato naturale. Ne fanno parte, a vario titolo, Spinoza, Hegel, ma anche, nel Novecento, Deleuze, che dedica un lavoro giovanile appunto alla relazione tra istinti e istituzioni. La sua tesi è che, certo, istinti e istituzioni non si equivalgono, ma che non possano venire separate e tantomeno contrapposti, per non privare le istituzioni di energia vitale e per non privare la vita di forma. Se ciò dovesse accadere, se la vita non scorresse più all’interno delle istituzioni, queste tenderebbero a prosciugarsi. Allora, come già è accaduto nella storia europea, la biopolitica potrebbe rovesciarsi in tanatopolitica. Come anche tu concludi, rimandando a Levinas, non basta riprodurre la vita, limitarsi a sopravvivere. Occorre reinventarsi – ma ciò è possibile quando al soddisfacimento dei bisogni si unisce la vitalità del desiderio. Vitam instituere richiama anche a questa necessità di dare un senso complessivo alla propria vita.
La vita umana non è un dato puramente naturale, un semplice evento biologico. Ha bisogno di essere istituita sul piano sociale, politico, simbolico in una forma che oltrepassi la sfera individuale, per entrare dentro una rete di relazioni capace di proteggerla e intensificarla. In questo senso la prima istituzione è costituita dal linguaggio che, proprio per la sua capacità istituente, si può dire configuri una seconda nascita, dopo quella biologica. Cosa altro è, del resto, la nostra vita se non istituzione continua di nuove relazioni e nuovi significati? Hannah Arendt, richiamandosi ad Agostino di Ippona, ha scritto che gli uomini stessi sono un inizio perché il loro primo atto è quello di venire al mondo, dando vita a qualcosa che prima non c’era. Perciò non è possibile cessare di istituire la vita. Anche nei momenti più bui non viene mai meno la tendenza umana a ricominciare daccapo, a ripartire per un viaggio che riguarda ciascuno e tutti. È questa spinta istituente che ci ha consentito, in ognuna delle crisi profondissime che hanno segnato questi anni, di rialzare sempre la testa.
GT: La vita peraltro, è sempre altrove, nel senso che non è mai la nostra. La “vita” così intesa, più che designare la condizione biologica che indica la capacità di un organismo di proteggersi temporaneamente contro le contingente cosmiche – raggiungendo un certo stato di equilibrio omeostatico – è piuttosto una forza che non lascia il potere formale della filosofia concludersi, chiudersi e compiersi in se stesso. Questa “vita” è allora la forza del pensiero, perché pensare non significa produrre una coscienza, ma piuttosto disfare la prima persona singolare e le sue proprietà.
Il pensiero non ha nulla di personale, se per persona intendiamo il paradigma normativo che identifica la zona di responsabilità e autenticità, e così anche il meccanismo che esclude coloro che persone mai furono o che ancora non sono. Se il pensiero non appartiene a nessuno, e non è prodotto da nessuno, allora esso deve di tutti e per tutti, ossia impersonale. D’altronde, come hai evidenziato incessantemente nei tuoi scritti echeggiando Simone Weil, chiunque penetri nella sfera dell’impersonale vi incontra una responsabilità verso tutti gli esseri umani[6]: perchè la giustizia, come il pensiero, non ha nulla di personale, e può esistere solo se fa appello a ciò, che lungi dall’essere prerogativa personale, si mantiene fuori da ogni proprietà ed esclusività…
RE: Condivido quanto dici. La vita non è mai esclusivamente ‘propria’. Ci sfugge da ogni parte, al punto che i nostri progetti quasi mai arrivano al loro esito predefinito. Ciò riguarda la sfera corporea – per i suoi ineliminabili limiti – ma anche quella psicologica. La vita, neanche la nostra, ci appartiene integralmente. E ciò in diversi sensi. Intanto perché è sempre vita di relazione. Anche una vita solitaria si può definire tale soltanto se la si confronta, in negativo, con la vita di relazione. La comunità è una condizione trascendentale, nel senso che siamo già da sempre al suo interno, fin da quando nasciamo dal corpo di un’altra persona. Personalmente ho trattato di questo tema nei lavori sulla communitas e sulla immunitas, che ne costituisce il rovescio. Oggi le nostre società tendono a aumentare sempre più i meccanismi di immunizzazione, che tendono a limitare la vita in comune. C’è, però, un limite, oltre il quale la procedura immunitaria rischia di scivolare in una sorta di malattia autoimmune. Ciò accade quando la protezione del corpo, invece di difenderlo, si rivolge contro di esso, portandolo all’implosione. Questo vuol dire che non è possibile isolarci dalla comunità oltre un certo limite, dal momento che non abbiamo una consistenza ontologica fuori di essa.
C’è poi una riflessione più concentrata sul tema dell’impersonale. Intanto si deve ricordare che per la scuola aristotelica araba lo stesso intelletto agente ha una dimensione comune, dalla quale i singoli uomini possono attingere risorse, senza poterle fare definitivamente proprie. Secondo una concezione del genere, di cui si possono cogliere alcuni echi anche in Dante, l’individuo è sempre parte di un insieme che lo supera a dal quale egli non può mai emanciparsi del tutto. Si noti che tale concezione, di origine avicenniana o averroista, fu fin dall’inizio contestata dai tutori dell’ordine, perché sembrava rendere impossibile, e anzi indefinibile, il concetto di responsabilità individuale. Se neanche i pensieri che pensiamo ci appartengono del tutto, se ci vengono da altrove, significa che in fondo non siamo responsabili di nulla e che, dunque, sul piano giuridico i nostri comportamenti non sono sanzionabili. Alcuni elementi di questa concezione ritornano in autori moderni, per lo più emarginati dai filoni di pensiero più tradizionali, come Bruno, Spinoza, Schelling, Nietzsche, Bergson.
All’interno del Novecento il tema dell’impersonale torna in forme diverse da un lato in Simone Weil e dall’altro in Deleuze. In Weil si lega a un rifiuto della categoria di ‘persona’, appunto come titolare della responsabilità giuridica e soprattutto dei diritti individuali. La categoria di persona, fin dalla sua doppia origine romana e cristiana, ha un effetto escludente. Perché qualcuno venga definito persona, occorre che ad altri non venga riconosciuto questo titolo. Che esistano delle semi-persone o anche delle non-persone, emarginabili o anche violabili. Simone Weil rileva che, una volta protetta la personalità di un dato individuo, quello che accade al suo corpo non importa. Quello che per lei conta non è la nozione di diritto, quasi sempre sostenuta dalla forza, ma quella di giustizia, che è appunto impersonale, perché include al proprio interno tutti e chiunque. Quanto a Deleuze, in dialogo su questo con Foucault, oltre la categoria di persona è decostruita anche quella di soggetto. Al suo posto la nozione di ‘divenire’ implica non soltanto la necessaria comunicazione con gli altri, ma anche la contaminazione e l’alterazione – divenire donna, divenire nero, divenire animale sono tutte modalità di uscire dalla metafisica della persona e del soggetto a favore di dinamiche impersonali, in cui natura e storia, individuo e comunità, uomo e animale trovano un’articolazione che la tradizione filosofica ha spesso mancato di riconoscere.
GT: Se la filosofia è”, nelle parole di Deleuze e Guattari, costantemente alla ricerca del proprio inizio, del proprio Oriente, è perché la Storia è sempre storia della propria interiorità. Ma il “divenire”, scrivono gli autori di Che cos’è la filosofia, è un milieu piuttosto che un’origine. Non può essere oggetto di una storia, ma di una geografia che “strappa la storia al culto della necessità per far valere l’irriducibilità della contingenza”[7].
L’epoca della globalizzazione ha d’altronde prodotto una specifica economia politica dello spazio che genera e mobilita flussi di energia, materie prime, denaro, forza lavoro, segni, informazioni e conoscenze, simboli, persone; essa coordina e sincronizza questi molteplici flussi in un asfissiante spazio unico. Questo spazio sembra non avere né centro né margini; eppure è ben lungi dall’essere pacificato in un ambiente condiviso o comune. Paradossalmente infatti, nel momento in cui il progetto di unificare le realtà terrestri nella figura totalizzante del globo sembra essere finalmente realizzato, sentiamo che l’unificazione del mercato mondiale ci priva invece dell’esperienza di qualcosa in comune: diventa sempre più chiaro che la conquista del globo va di pari passo con la progressiva distruzione di ogni possibile ‘mondo’[8]. Il paradosso del nostro tempo è allora che l’umanità diventa ogni giorno più integrata, ma allo stesso tempo sempre più frammentata. Valori, tempi e spazi divergenti e diversi coesistono in permanente collisione tra loro.
Così per riprendere la riflessione sul divenire potremmo dire che oggi si rende così necessaria una filosofia dei luoghi, una filosofia situata?
RE: Diversamente dal filone fondamenta della filosofia che, da Hegel a Heidegger, pensa l’essere in rapporto al tempo, Deleuze e Guattari si concentrano sul nesso tra filosofia e spazio, secondo una modalità che essi stessi definiscono ‘geofilosofica’. Benché a qualche decennio di distanza diano al loro libro un titolo identico a quello del saggio heideggeriano Che cos’è la filosofia, lo distanza da Heidegger non potrebbe essere maggiore. Non perché Deleuze e Guattari trascurino la questione dell’origine greca – al contrario tornano con forza su di essa – ma perché la dispongono, anziché sul piano verticale della temporalità, come fa Heidegger, su quello, orizzontale, della spazialità. Ad allontanare il testo di Deleuze e Guattari da quello di Heidegger è una nozione di filosofia non esterna alla linea della temporalità, ma che la incrocia fin dall’inizio con la dialettica spaziale tra territorio e deterritorializzazione. Anche da questo lato la distanza da Heidegger appare incolmabile. Se per questi la terra è il luogo di identificazione con la propria origine immemoriale, in Deleuze è il luogo della sua dispersione mediante un continuo sconfinamento che rovescia il dentro nel fuori. Al punto che anche le filosofie cosiddette nazionali – tedesca, francese, italiana – vanno intese non nella loro identità, ma nella loro contaminazione reciproca. Ciò che conta, in ordine alla domanda su cosa sia la filosofia, non è il suo radicamento territoriale, ma, al contrario, la tensione antinomica tra confine e sconfinamento – qualcosa di assai diverso dalla relazione heideggeriana tra terra e mondo.
Quali conseguenze Deleuze e Guattari traggono da tale spazializzazione del pensiero? Cosa è per loro filosofia? Partiamo da una definizione in negativo – da quanto la filosofia non è, né deve essere. Essa non è contemplazione, riflessione, comunicazione. Non è contemplazione perché la contemplazione presuppone una forma di distacco tra chi contempla e ciò che è contemplato – esattamente il contrario del coinvolgimento radicale del filosofo con il proprio oggetto. Non è riflessione perché chiunque può riflettere sul mondo o su se stesso senza per questo essere necessariamente filosofo. Non è, infine, comunicazione, perché questa, lavorando sempre su contenuti già dati, è incapace di creare un concetto veramente nuovo. Quando invece proprio la creazione dei concetti è, per Deleuze e Guattari, il compito di quella forma di sapere che in Occidente ha assunto il nome di filosofia. Fare filosofia non è discutere, magari in una comunità illimitata della comunicazione. Non è riconoscersi, curare, consolare, come ritengono i terapeuti della consulenza filosofica. Nulla di queste pratiche ha a che vedere con la filosofia nel suo significato essenziale. Che per Deleuze e Guattari è sempre e soltanto creazione di concetti – capacità di strapparli al caos in cui sono immersi, per situarli su un piano di immanenza che inauguri la possibilità di nuovi divenire.
Ci soddisfa questa definizione? Risponde alla nostra domanda su cosa sia la filosofia? È all’altezza del nostro divenire? Personalmente ritengo che la risposta di Deleuze e Guattari, pur necessaria, non basti. Che a essa vada aggiunto qualcosa di altro e anche di diverso – un segmento di riflessione ulteriore. Quale? Cosa manca alla definizione di Deleuze? Come si potrebbe modificarla o integrarla? Su un punto è possibile senz’altro concordare. È il rifiuto di ogni forma di filosofia negativa. Sotto questo registro cade anche quella che, negli stessi anni in cui lavorava Deleuze, ha assunto il nome di ‘decostruzione’. Certo, la decostruzione, come è stata elaborata e praticata soprattutto da Jacques Derrida, ha svolto una funzione di forte rinnovamento nel pensiero continentale, contribuendo a rilanciarlo anche fuori dello spazio europeo. Essa ha prodotto testi di straordinaria intensità teoretica e aperto spazi di pensiero altrimenti chiusi, rinnovando radicalmente il paradigma heideggeriano da cui pure proviene. Ma oggi la filosofia non può limitarsi a decostruire un mondo che è già di per sé ‘a pezzi’ – e che semmai ha bisogno urgente di essere ricostruito.
L’esigenza di superare la decostruzione – ovviamente incorporandone i segmenti ancora vitali – non nasce solo dalla sensazione di un logoramento e di un’estenuazione dei suoi protocolli. Ma anche dal fatto che fin dalle sue origini mostra un profilo reattivo e dunque per definizione negativo. Sia nella variante heideggeriana della Destruktion sia in quella derridiana della déconstruction, essa si esprime sempre in rapporto a qualcosa da cui implicitamente prende le distanze. Più che creare paradigmi nuovi, parlare in proprio, costruire una propria forma di pensiero, la decostruzione non può che partire da un obiettivo critico esterno. Ciò non vuol dire escludere la critica dal campo della filosofia, che al contrario esercita naturalmente una funzione indispensabile, ma invertire il suo rapporto di causa ed effetto con la creazione. Non è che una filosofia crei nuovi concetti perché ne sta criticando un’altra, ma la critica perché sta creando nuovi concetti. È perché sta già allestendo un nuovo piano di discorso che Spinoza critica Descartes o Hegel critica Kant, non viceversa. Ecco la differenza che passa tra un modo affermativo e uno negativo, reattivo, di fare filosofia. Larga parte della tradizione occidentale, con alcune significative eccezioni, ha prodotto una filosofia negativa, praticando un’attività che Nietzsche avrebbe definito col termine ‘risentimento’. In che senso? Cosa vuol dire che il pensiero moderno ha prevalentemente pensato in forma negativa; e che anzi è stato talmente catturato nella macchina del negativo da non riconoscerla in quanto tale? Significa che la riflessione filosofica, anziché enunciare affermativamente i propri concetti, li ha desunti dalla negazione del loro contrario. Oggi, senza perdere il rapporto con il negativo, occorre ripensarlo alla luce dell’affermazione, riconoscere le modalità affermative della negazione. Nel libro Politica e negazione[9] ho provato a rintracciarle nelle tre figure della differenza, della determinazione e dell’opposizione.
Leggi la traduzione in inglese dell'intervista:
[1] Roberto Esposito, Dieci pensieri sulla politica. Bologna: Il Mulino, 2011, p. 235.
[2] Ernst Jünger – Carl Schmitt, Briefe 1930-1983. Stuttgart: Klett-Cotta, 1999.
[3] Philippe Descola, Par-delà nature et culture. Paris : Gallimard, 2005, p. 126.
[4] Roberto Esposito, Vitam Instituere: Genealogia dell'istituzione. Torino: Einaudi, 2023, p. 3.
[5] Emmanuel Lévinas, Totalité et Infini : Essai sur l’extériorité (1961). Paris : Le Livre de Poche, 1991, p. 21.
[6] Simone Weil, La personne et le sacré (1943). Paris : Payot, 2017.
[7] Gilles Deleuze – Felix Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?. Paris, : Les Éditions de Minuit, 1991, p. 90.
[8] Cf. Giovanbattista Tusa, Terra Cosmica: Traces of Georealism. London and Bristol: Tenement Press, 2024, p. 85.
[9] Roberto Esposito, Politica e negazione. Per una filosofia affermativa. Torino: Einaudi, 2018.